
Un ragazzo con tanta energia nel cuore e nell’anima e amante della scrittura, fin da piccolo. Il tutto lo si trova nella sua musica, che parla anche di questi tempi e del bisogno di allontanare le “cattive vibrazioni”. Lui ha ragione e ne è venuta fuori un’intervista bella ed emotivamente ricca
Ciao, parlaci di te, Ganoona: qual è il tuo vero nome e che cosa ti ha fatto avvicinare alla musica?
Mi chiamo Gabrièl. Sono nato a Milano da mamma italiana e papà messicano. Da sempre, ho avuto una fissazione per la scrittura e la creatività. Scrivere mi sembrava l’unico modo per cercare di comunicare realmente quello che provavo, soprattutto da bambino, quando è più difficile essere ascoltati. La musica è stata sempre una fissazione da quanto mi ricordi. La prima canzone l’ho scritta in quarta elementare per un mio amico che cambiava città, registrata su una cassettina che ho ancora da qualche parte… Poi da ragazzino ho scoperto il rap, ed è stato il Big Bang. Per qualche anno, ho frequentato l’ambiente underground hip hop milanese, fatto di locali ambigui e rime gridate sul palco. Volevo essere ascoltato e gridavo.
Lentamente, i miei gusti musicali si allargavano, scoprivo il soul, il blues e molto altro. Ho iniziato a studiare musica e ho scoperto di poter cantare, oltre che gridare. Durante questo periodo, il mio “lato italiano” prevalse su quello messicano, che rimase in silenzio . Nel 2017 ho pubblicato un EP in lingua spagnola con un’etichetta messicana e l’ho portato in tour nel Centro e Sud del Messico.
Finalmente parlava anche l’altra metà di me. Però, al ritorno, qua in Italia nessuno la poteva capire. Da qui nasceva in me l’esigenza di creare una “Musica Ponte”, una musica che nascesse dalla commistione delle due sonorità, italiana e latina, e delle due lingue. Una musica che fosse l’espressione finalmente di tutto me stesso.
Tu vivi a Milano, ma hai origini messicane. Che cosa credi di aver portato delle tue origini nel tuo vivere come artista musicale? Cosa, invece, nella musica italiana senti vicino a te?
Sicuramente, dal Messico ho ereditato l’amore per il ritmo, l’approccio percussivo alla musicalità. Direi anche la tendenza alla malinconia. La musica latina in generale l’ho sempre sentita parte di me, le inflessioni di intonazione tipiche delle voci tradizionali latine… la lingua spagnola… certe volte mentre scrivo mi vengono delle frasi in spagnolo, all’inizio del mio percorso le traducevo in italiano, ora le lascio così.
Sono cresciuto in Italia, quindi ho un forte amore per la cultura di questo Paese. Da sempre sono stato rapito dai cantautori, dal loro modo di usare la lingua come i poeti. Nomi come Dalla, De Andrè, Battiato hanno cambiato il mio modo di vedere il mondo. Amo molto anche il rap italiano, che in certi casi ha preso in mano il testimone di quei cantautori degli anni passati. In generale, poi, il concetto di “canzone” nasce qui in italia, l’idea di strofa e ritornello… Quindi come non amare tutta la musica italiana, da i canti popolari alla canzone napoletana.
Rispetto al tuo precedente singolo Cent’anni, più “latineggiante” e malinconico, Bad Vibes (che, diciamolo, è una sorta di inno al voler scacciare le energie negative della vita e della quotidianità) vira maggiormente all’attuale sound rap: di quest’ultimo genere che cosa ti piace in particolare? C’è qualche artista che ti ispira?
Di rap in realtà in Bad Vibes c’è giusto la seconda strofa, un po’ più ritmica vocalmente. Per il resto, prevalgono le sonorità R ‘n’ B, mentre le sonorità latine le troviamo sullo sfondo, nelle percussioni distorte e nei flauti “andini” che fanno capolino ogni tanto nell’arrangiamento. Ho voluto rappare nella seconda strofa perché amo la schiettezza che il rap impone. Quando ho tanto da dire, mi viene da giocare con la metrica, le parole e il loro suono. Poi, quando scrivo, penso sempre in rima, sono affezionato a questa eredità che mi ha lasciato il rap e non penso di volerla abbandonare. In passato mi hanno influenzato molto artisti come Dargen D’amico, Marracash, Ghemon e altri.

Nel video di “Bad Vibes” si vedono persone che ballano freneticamente, quasi a voler liberarsi proprio di quelle energie negative di cui parli nel brano. Com’è nata l’idea di far ballare nelle proprie case, in piena quarantena da Covid-19, i ballerini della crew The Collective?
Sono da sempre appassionato di danza. Conosco diversi ballerini e ballerine e ho sempre invidiato e ammirato la loro capacità di veicolare idee, sentimenti e musicalità solo tramite il corpo. Quindi, non vedevo l’ora di poter coinvolgere dei ballerini in un mio progetto. Abbiamo cercato di creare un mosaico di prospettive individuali. Ognuno solo nella propria quarantena, ma tutti uniti dal messaggio che volevamo trasmettere. Grazie al montaggio di Lorenzo Chiesa, regista del video, con l’aiuto della coreografa e ballerina Ambra Apfel, il risultato mi ha colpito molto. Soprattutto mi piace molto che ogni ballerino abbia interpretato il pezzo in maniera diversa, utilizzando stili diversi, approcci emotivi diversi.
Progetti futuri?
A brevissimo uscirà un nuovo singolo, e prima di quanto io stesso mi aspetti uscirà un EP. Non vedo l’ora di tornare a suonare dal vivo.
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